Come detto, i vincoli imposti dalla crisi sanitaria da Covid-19 hanno portato molti operatori culturali a ripensare i modi di interazione con il pubblico, cercando nuove forme di relazione con i in un contesto dove gli incontri fisici e l’interazione faccia a faccia vivevano una trasformazione radicale.

Queste limitazioni non solo hanno influito sulla produzione culturale degli operatori in termini di capacità produttiva, ma hanno anche fatto insorgere delle criticità riguardo a quei canali di distribuzione che esistevano prima della pandemia ma che grazie ad essa hanno raggiunto altissimi livelli di utenti. Spesso quando si parla di canali di distribuzione, si fa riferimento alle piattaforme: tra le più note si possono citare Netflix, Spotify, Disney Plus. In virtù della presenza di questi forti attori, si tende a parlare di platformizzazione della cultura. È infatti noto che le piattaforme di distribuzione di prodotti culturali digitali hanno contribuito a creare nuove dinamiche dell’economia culturale su entrambi i fronti del consumo e della produzione culturale (cfr. Eriksson et al., 2019; Lobato, 2019; Nieborg et al., 2020). Le piattaforme digitali, infatti, non solo modificano i rapporti tra produttore e consumatore inserendosi come intermediatori e accentratori della distribuzione culturale, ma giocano anche un ruolo critico nell’indirizzare i gusti del consumatore/utente e di conseguenza modificano e influenzano la domanda.

Tuttavia, possiamo anche osservare che, in alcuni casi e contesti, sui quali andrebbero costruiti percorsi di ricerca ad hoc, le piattaforme in qualche modo sono state anche in grado di supplire alla mancanza di punti di aggregazione reali, fornendo un’alternativa digitale, raccogliendo intorno a loro una diversa forma di comunità.

Si tratta principalmente di social media utilizzate già da comunità di utenti, che hanno fornito l’infrastruttura per consentire a comunità già esistenti di continuare a esistere.

Che tipo di comunità si è dunque strutturata attraverso l’intermediazione digitale costretta a causa della pandemia?

Secondo il linguaggio della teoria sociologica, si parla di comunità quando si ha a che fare con un’aggregazione sociale costituita da interazioni interpersonali dense tra individui che condividono storie e identità, aderiscono a valori comuni, che influenzano le visioni del mondo dei partecipanti e le loro identità attraverso una storia comune, attraverso ideali, tradizioni, costumi, linguaggio, ideologia. Una dimensione comunitaria dell’interazione implica tipicamente la condivisione di un sistema di significati e valori, norme di comportamento, ecc.

La comunità condivide non solo, come detto, un’identità comune in cui si riconosce, ma anche riturali e tradizioni. Le comunità, inoltre, possono avere anche una forte componente territoriale ed essere legate a un territorio specifico. Tipicamente, anche l’interazione sociale online viene definita con il termine “comunità”.

Tuttavia, durante la pandemia, sono emerse forme di socialità effimera caratterizzate da un focus discorsivo che si sovrapponeva a forme di condivisione intensa. Queste comunità sono state contraddistinte da una natura molto stabile e coesa, probabilmente perché accumunate da un evento emotivamente prorompente e condiviso come la pandemia e il lockdown.

Proprio perché caratterizzate da una condivisione intensa, le comunità hanno trovato la loro ragione fondamentale in un’esperienza condivisa ma effimera ed è in virtù di tale ultima caratteristica, sebbene esistenti, le comunità pandemiche sono nate e si sono evolute all’interno di una forma comunicativa di un pubblico digitale, basato su un focus discorsivo che, una volta esaurito, tende a dissolversi. Analisi future, conclusa la pandemia, potrebbero rendere pù chiaro questo processo e svelarne dinamiche e meccanismi.

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